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Statistiche del territorio

Evoluzione demografica

Struttura urbanistica - Gjitonia/Il vicinato

Per qualsiasi approccio di studio socio-antropologico ci si rapporti alla comunità di San Martino, non si può prescindere da quella che è stata la sua struttura sociale ed organizzativa, ossia la gjitonia. Il termine indica la microstruttura in cui è organizzata la società arbëreshe. Da un’analisi demografica storica, riguardante la composizione e la collocazione spaziale delle famiglie, e con il supporto della toponomastica, si nota che almeno fino alla prima metà dell’ottocento, le famiglie appartenenti ad un unico casato occupavano interi quartieri e con la presenza di famiglie esterne, il più delle volte imparentate a loro, anche se nel registro dell’anagrafe ancora nell’ottocento risulta un numero rilevante di matrimoni tra persone con lo stesso cognome[1]. Così si avevano i quartieri dei Tocci (chiamato Rahji), dei Pinnola, dei Malicchia (nel XVII sec. La Malicchia, e già dal sec. XIX, per corruzione del nome, Malikàt, includendo anche il quartiere dei Pinnola), dei Musacchio e rioni in cui risiedevano i Drammis, i Perrotta, e altri ancora. I quartieri erano ulteriormente suddivisi in gjitoni e questo rimanda al corrispettivo della struttura urbanistica e sociale dei Griki nel Salento, la ghetonia, come ampliamento dell’abitazione in seguito al matrimonio dei figli maschi. Con il tempo, attraverso i matrimoni e lo spopolamento del paese, le gjitoni hanno finito per perdere l’elemento strutturale verticale ed evolversi verso quello di tipo orizzontale[2]. Quindi, non necessariamente il gjiton è un parente. Seppur da struttura sociale di tipo verticale la gjitonia si è evoluta in struttura di tipo orizzontale, le relazioni tra i suoi appartenenti erano molto strette, come quelle con i parenti. Forse proprio per supplire al cambiamento intercorso, all’interno delle varie gjitoni erano favoriti i matrimoni ma anche i legami di comparaggio. Fenomeno importante per il rafforzamento dei legami era l’allattamento. Non solo le puerpere più ricche di latte allattavano i figli di coloro che ne avevano meno, ma quando le giovani madri si allontanavano insieme per i lavori comunitari, una di loro restava in casa allattando e accudendo i neonati delle altre, a rotazione. E le donne da cui si era preso il latte, erano chiamate mamau, variante del termine mëma (mamma). Anche il rito di fratellanza e sorellanza vollamët e motërmat, varianti dei termini vulla e motër (rispettivamente fratello e sorella), consistente in un’agape eseguita all’esterno del centro abitato, la Domenica in Albis, tramite cui si rafforzano ulteriormente i legami tra i partecipanti, un tempo era organizzata tra i vari gjitonë. In seno a questa struttura si eseguivano i lavori comunitari e si attuava il mutuo soccorso. Questo ruolo era demandato specialmente alle donne e alle adolescenti che non rifiutavano di fare compagnia di notte alle anziane sole, di recarsi a prendergli l’acqua alla fonte; andargli incontro e prendergli il carico della legna prima che entrassero nel centro abitato, per risparmiargli un po’di fatica. E le anziane ripagavano trasmettendo il loro sapere che così si tramandava da una generazione all’altra. Nella gjitonia si formavano i giovani sui valori fondanti della comunità, si apprendevano i modi comportamentali, gli usi, i costumi e i riti. Lì gli venivano narrate le antiche fiabe, le leggende; gli si insegnavano le preghiere e i canti sacri come i canti profani. Lì venivano iniziati all’esecuzione dei canti tradizionali e alle danze. Una comunità così rigidamente strutturata potrebbe far pensare ad una società chiusa, ed in parte lo era. Ma d’altro canto, una breve indagine d’archivio mostra che già nel secolo XVII diversi Sammartinesi si sposavano con persone di altre comunità limitrofe come Rota, Mongrassano e Serra di Leo, e di aree geografiche diverse, ma della stessa origine etnica, come Santa Caterina, Spezzano Albanese e Falconara Albanese. Non mancano però matrimoni, anche se numericamente inferiori, con persone di paesi latini come Torano e Guardia. Le relazioni con altre comunità, per motivi commerciali, come l’acquisto del sale a Lungro, del miglio a Sartano e a Spezzano; la partecipazione alle fiere come quella di Solferano a Bisignano, i pellegrinaggi al santuario della Madonna del Pettoruto a San Sosti e a quello di San Francesco di Paola nell’omonima città, hanno contaminato la sua cultura. Ciò è ben visibile anche nel vasto repertorio delle melodie dei vjeshë e degli ajër, alcuni dei quali presenti in altre comunità, nonché di canti in calabrese[3].

Note
1. Archivio Anagrafico Storico del Comune di San Martino di Finita (Atti dall’anno 1809)
2. Nel 1856 il solo centro contava 1500 abitanti e la frazione Santa Maria 400 per un totale di 1900 unità. V. Archivio Storico della Diocesi San Marco-Scalea, Relazione del vescovo Livio Parladore, anno 1856
3.  V. Vincenzo La Vena - Vincenzo Perrellis, Tradita Muzikore e Shën Mërtirit, I Vjershe e Ajër, LIM Editrice, Lucca, 2009

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